lunedì 20 giugno 2016

Mi chiamo Lucy Barton

di Elizabeth Stroud - Einaudi

Ci sono due cose da dire su questo libro. Due cose distinte. Anche se a un Pulitzer ci si deve accostare con umiltà e discrezione.
Prima cosa. L’attrice scrive benissimo. Ha la capacità di entrare e uscire dalla storia, saltare, cadere anche, riprendersi e rilanciarsi - narrativamente parlando - con una facilità e una scorrevolezza (così si diceva a scuola) non comuni. E il suo successo, anche dal punto di vista commerciale, lo dimostra.
In particolare i dialoghi si dimostrano perfettamente incastrati tra loro, si inseguono come in un balletto classico, con tempi e modi perfettamente sincronizzati. Un piacere.
La seconda cosa. Il libro è noioso. Sembra una contraddizione, ma anche una storia noiosa, che si parla addosso, può essere scritta in modo sublime. Proprio come in questo caso.
Forse bisogna aver vissuto, da donna, il rapporto con la propria madre, forse bisogna passare cionque giorni di autocoscienza in ospedale con lei, forse bisogna avere la capacità di traslare ogni parola nel personale vissuto, forse bisogna chissà che altro essere, ma è decisamente è stata una lettura che mi sono imposto di concludere in onore di una deontologia del lettore - tutta personale, intendiamoci! - che non si deve mai mollare la presa, perché magari, voltando pagina, si rivela chissà quale mondo che, gettando il libro alle ortiche, potresti perderti.

Non mi è piaciuto e punto. E non mi voglio sentire in colpa.

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